Traduzione italiana di What to Say When 1
Cosa devo dire quando si parla di stupro? Come rispondo a “Il mio corpo, la mia scelta”? Come dovrei affrontare il tema della politica?
Dal “parto forzato” al genere fino a “proclama il tuo aborto”, molto è cambiato da quando l’aborto è stato legalizzato nel 1973. Tuttavia, rimane il tema più controverso del nostro tempo. Cosa dire quando ti fornisce approcci provati sul campo per aiutarti a:
- Sapere esattamente cosa dire (e cosa non dire) quando si parla di aborto
- Equilibrare la conversione dei cuori rispetto alla vittoria degli argomenti
- Navigare tra i modi mutevoli e bizzarri con cui l’aborto viene promosso
- Passare all’attacco e rimanere sul tema quando difendi la vita
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Aspetti e contestualizzazione del libro
Andrea Mazzi, Campagna de Modena, Italia
Il testo “What to say when” è un bellissimo testo ricco di idee e di spunti per argomentare il sì alla vita ed il no all’aborto volontario; sconta però il limite di fare riferimento nello specifico alla situazione legislativa, culturale e sociale degli Stati Uniti D’America.
Anche riguardo a quel paese, esso non è aggiornato in quanto è stato scritto prima della storica sentenza “Dobbs vs. Jackson” del 2022 che dopo 49 anni ha stabilito che non esiste negli USA un diritto federale all’aborto.
Occorre pertanto aggiungere al testo originale un’introduzione che spiega le principali differenze tra la situazione negli USA e quella italiana, e fornisce alcuni spunti ulteriori di riflessione utili per il confronto, in considerazione del fatto che nel nostro paese è più facile sentire alcune obiezioni che negli USA sono meno frequenti.
In estrema sintesi, queste sono le principali differenze tra USA ed Italia riguardo all’aborto:
1) in Italia gli aborti vengono eseguiti presso ospedali o case di cura pubbliche o convenzionate con il pubblico (e, dal 2022, anche dai consultori pubblici); la legge 194/78 non prevede che l’aborto venga eseguito presso cliniche private: non ci sono pertanto sedi di multinazionali dell’aborto, come Planned Parenthood, Marie Stopes International, ecc… in cui le donne possano abortire.
Lo Stato, attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, è l’unico fornitore di aborti. Le leggi che regolano queste aziende sono statali, e, in quanto la sanità è di competenza regionale, anche da leggi regionali che regolano i requisiti necessari per poter operare nel settore pubblico. Negli Stati Uniti la situazione è fondamentalmente diversa. Non esiste un Servizio Sanitario Pubblico, e la sanità è finanziata prevalentemente attraverso assicurazioni che i datori di lavoro o i singoli cittadini stipulano con assicurazioni private. I servizi sanitari sono prevalentemente erogati da strutture private che funzionano come vere e proprie aziende. I vari stati consentono o meno l’accesso gratuito alle cliniche abortive attraverso strumenti di assicurazione pubblica statali (Medicaid) per le persone a basso reddito. Ci sono anche organizzazioni private che offrono il supporto economico per le persone in difficoltà economiche oltre che per l’aborto anche per il trasporto il soggiorno e altre spese connesse. Ecco perché nel libro si parla dell’ Industria dell’Aborto.
2) tutte le prestazioni legate all’aborto che vengono eseguite nelle strutture sopra indicate sono a totale carico del pubblico, la donna che lo richiede non paga nulla: visite, esami, degenza, intervento… sono interamente finanziati coi soldi dei contribuenti.
Quindi da un lato non c’è un passaggio di soldi diretto tra la struttura sanitaria e la donna. Dall’altro questo comporta che ogni cittadino contribuisce con le sue tasse a finanziare il sistema abortivo.
La gratuità è stabilita dalla Legge 194/78 (art. 10) ed è universale, non dipende quindi dal reddito del richiedente. Non è previsto nemmeno il pagamento di un ticket.
In Italia quindi siamo tutti proprietari delle strutture sanitarie e direttamente finanziatori di chi opera nei reparti dove si fornisce l’aborto; inoltre nulla cambia per chi lavora nei reparti di ostetricia se ci sono meno donne che abortiscono, i finanziamenti e gli stipendi arrivano lo stesso, con i soldi delle nostre tasse.
3) dal punto di vista legislativo, il fatto che gli Stati Uniti siano una federazione di stati prevede che la legislazione sia regolata da leggi statali, specialmente dopo l’ultima sentenza della Corte Suprema degli stati Uniti (la Dobbs vs. Jackson) che ha ridato il potere di legiferare sul tema ai singoli stati. Si è venuta a creare una situazione dove in alcuni stati sono state reintrodotte leggi che prevedono il bando quasi totale dell’aborto (è illegale praticare aborti dopo la 6a settimana, da quando cioè è possibile sentire il battito cardiaco del feto) mentre in altri le leggi sono diventate ancora più permissive ed è consentito senza limitazioni fino al termine della gravidanza.
In Italia l’aborto è regolato dalla legge 194, entrata in vigore nel 1978 e da allora pressoché immodificata, che individua 3 percorsi per abortire legalmente, differenti in base all’età gestazionale:
- Fino al novantesimo giorno, l’aborto è possibile se la donna ritiene di essere in presenza di «un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» (art. 4). Nei fatti in questo periodo l’aborto avviene a semplice richiesta.
- Dopo il novantesimo giorno, e fino alla «possibilità di vita autonoma del feto» (limite definito dalle aziende sanitarie, e normalmente compreso tra la ventiduesima e la ventiquattresima settimana di gestazione), l’aborto può avvenire quando vi sia «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» dovuto ad «accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» (art. 6). Nei fatti in questo periodo gli aborti avvengono in gran parte a seguito di una diagnosi di problemi di salute del nascituro.
- Oltre il limite di possibilità di vita autonoma, l’aborto è possibile solo «quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» (art. 6).
Percorsi speciali sono individuati nei casi in cui la mamma sia minorenne (art. 12) o sia interdetta (art. 13).
4) In Italia tre anni dopo dopo l’entrata in vigore della Legge 194, il 17 maggio 1981, si sono svolti due referendum popolari sulla regolazione normativa dell’aborto, uno promosso dal Movimento per la Vita che chiedeva di modificare la legge in senso restrittivo, un altro promosso dal Partito Radicale che chiedeva una maggiore liberalizzazione. Entrambi sono stati bocciati dagli elettori, il primo con il 68% dei voti, il secondo con l’88,42%.
Spesso nel dibattito pubblico tanti dicono che non si può discutere di aborto perché ormai gli italiani hanno detto la loro sul tema.
Non si capisce però perché richiamare sempre un referendum che si è tenuto più di 40 anni fa, quando i costituzionalisti ci ricordano che l’efficacia di un referendum è di 5 anni (art. 38 legge 352/70).
I cittadini italiani di oggi non possono essere vincolati da una consultazione a cui non hanno partecipato loro ma i loro genitori. Tanti di noi infatti nel 1981 non hanno votato perché non erano ancora maggiorenni o addirittura nemmeno nati. Senz’altro da 40 anni ad oggi il corpo elettorale è cambiato in misura maggiore dello scarto tra i sì e i no del 1981.
5) tra la varie correnti culturali a giustificazione dell’indifferenza morale verso l’aborto e della conseguente legalizzazione, in Italia e più in generale nell’Europa occidentale questi ultimi decenni hanno visto prevalere il pensiero che l’aborto sia una questione privata della donna, in quanto riguarda il suo corpo, che deve essere pienamente libera di decidere, in piena autonomia, e le istituzioni quindi devono unicamente garantire l’attuazione della decisione della donna. Non viene preso in considerazione il fatto che questa decisione spesso non è effettivamente libera, che c’è un’altra vita in gioco, che si tratta una scelta che può avere conseguenze devastanti sulla salute delle donne stesse. Si tratta di un pensiero ideologico, che negli anni sta mostrando dei tratti sempre più intolleranti, non disponibile al dialogo e al confronto, scatenando anche gogne mediatiche contro chi la pensa diversamente.
C’è quindi un filone politico, sociale e culturale che promuove attivamente questa visione. I consultori, realtà nelle quali vengono rilasciati più del 50% dei certificati per abortire, sono spesso intrisi di questa cultura e di conseguenza sono chiusi alla possibilità di attivare progetti per superare le cause degli aborti, nonostante che la legge assegni anche a loro questo compito.
Negli USA, come si può vedere dalle argomentazioni esposte in questa pubblicazione, le motivazioni a giustificazione de ricorso all’aborto sono più differenziate.
6) L’Italia è un paese in cui la Chiesa cattolica ha ancora oggi una significativa attenzione culturale e mediatica. Fin da quando è iniziato il dibattito sulla legalizzazione dell’aborto la gerarchia cattolica si è espressa in più occasioni chiedendo attenzione e diritti verso il bambino concepito. Di conseguenza il mondo pro-choice promuove la diffusione dell’aborto e la sua legalizzazione come una scelta di laicità. Nel dibattito pubblico si sente ripetere che “la Chiesa non deve imporre il proprio punto di vista” per giustificare il rifiuto aprioristico di qualunque invito alla riflessione sul tema che venga da uomini di Chiesa. Senza considerare che un credente può portare idee e proposte nella società semplicemente perché ritiene che siano le più giuste e più utili per la società in cui vive.
7) Negli USA la galassia delle associazioni pro-life e veramente vasta ed è ispirata principalmente dai cristiani di denominazione evangelica e dalla Chiesa Cattolica. Non esiste un’organizzazione predominante e di coordinamento dell’azione di sensibilizzazione e di opposizione alla mentalità abortista. Di conseguenza esistono gruppi pro life che agiscono in modo molto differente l’uno dall’altro, con diversi obiettivi finali, che vanno dal bando totale dell’aborto, a gruppi meno rigidi che operano per consentire leggi che regolano l’aborto accogliendo eccezioni più o meno varie.
Queste associazioni si trovano da un lato a contrastare le varie legislazioni statali, dall’altro i proprietari delle cliniche private. Ecco perché organizzano manifestazioni di preghiera nonviolente presso queste cliniche. Ecco anche il perché dell’alto tasso di successo di tali iniziative, considerando che se tu convinci chi vuole abortire a non abortire togli la linfa vitale a queste aziende private.
Le organizzazioni che lottano contro l’aborto (e anche quelle per) se sono no profit e non politiche operano sotto un ombrello di esenzioni, e chi dona a queste organizzazioni può usufruire delle più ampie facilitazioni. A ragione di ciò la dimensione di queste associazioni dal punto di vista economico è molto più grande e quindi queste riescono ad operare molto più facilmente. Come ci sono organizzazioni che aiutano le persone economicamente deboli ad abortire così ci sono organizzazioni che aiutano le mamme in difficoltà ad evitare l’aborto, fornendo inoltre aiuti materiali. Oltre a fare ciò queste organizzazioni fanno opera di convincimento per contrastare e cambiare la mentalità abortista che pervade la società americana.
Anche in Italia le associazioni pro-life sono numerose, ma nella maggior parte si tratta di realtà piccole o molto piccole, che promuovono l’aiuto alle gestanti in difficoltà e fanno un’azione di sensibilizzazione, basata principalmente su incontri e convegni, che però difficilmente riesce ad arrivare al grande pubblico.
L’aborto è un tema che non entra nel dibattito sociale più complessivo o nelle campagne elettorali ma viene trattato a parte; quando se ne parla, in occasione di cambiamenti legislativi o di fatti di cronaca, è un argomento imbarazzante e viene trattato facendo ricorso a slogan e frasi fatte in modo superficiale.
Tre regole basilari
In questo contesto, per riuscire ad avviare un dialogo e trovare ascolto da parte delle persone comuni, occorre innanzitutto tenere presente 3 regole fondamentali:
1) Portare l’attenzione sull’aborto prima che sulla legge 194
La nostra contrarietà è innanzitutto all’aborto, che è una grande ingiustizia per i bambini e che provoca una grave ferita alle donne. Quindi siamo contrari ad ogni aborto, di qualunque tipo: sia legale che illegale, sia chimico che chirurgico… è una questione di uguaglianza, di rispetto dei diritti dei nostri simili, di inclusione, di attenzione ai più deboli…
L’aborto è innanzitutto un fatto umano molto negativo, ed è sempre da qui che occorre partire. Occorre quindi portare l’attenzione delle persone sui bambini, sulle donne, sui loro vissuti, far percepire le paure e le angosce delle donne, il trauma dei bambini, perché le persone si rendano conto di quello che succede ed escano dall’indifferenza, e prendano a cuore le donne e i bambini in difficoltà.
E’ vero che la legalizzazione dell’aborto è un ulteriore fatto negativo. Le leggi dovrebbero servire per porre dei limiti a difesa dei più deboli, invece le leggi abortiste definiscono dei percorsi per porre fine alla vita di un nostro simile, di uno di noi, completamente indifeso, e questa è un’ulteriore ingiustizia.
Ma il punto da cui partire è sempre quello, conoscere da vicino cos’è l’aborto e condividere che è un fatto negativo, un vero e proprio disastro per la donna, per suo figlio e per la società tutta. Se uno ha questo sguardo allora è possibile che dica anche che le leggi che proteggono l’aborto sono ingiuste, ma non sarà mai vero il contrario.
Viceversa se io critico le leggi abortiste con chi non riconosce l’esistenza di un bambino nel grembo, avrò come reazione una ‘levata di scudi’ a difesa dei diritti delle donne e della sua libertà di abortire. Prima è necessario che quella persona abbia un giudizio chiaro di cos’è l’aborto.
2) Considerare congiuntamente i bambini nel grembo e le loro mamme, entrambi vittime della società abortista
I pro-life giustamente parlano molto del bambino non nato, dato che oggi è dimenticato e scartato dalla nostra società.
Nel fare questo però a volte non parlano delle loro mamme o ne parlano come se fossero le uniche responsabili della vita dei loro figli, come se la decisione di abortire non derivasse anche da problemi esterni alle donne stesse.
Per contro i pro-choice parlano solo delle donne e non dei loro figli, e se parlano delle gravidanze è solo per evidenziare il limite che rappresentano per le donne.
Queste impostazioni sottintendono entrambe che dietro un aborto ci sia una contrapposizione, un conflitto tra la mamma gestante ed il suo bambino.
Invece la mamma e suo figlio sono strettamente uniti, anche fisicamente! E l’esperienza dei tanti volontari pro-life testimonia che se si vuole salvare la bambina / il bambino nel grembo una delle azioni più preziose è quella di sostenere e valorizzare la sua mamma.
Gli operatori delle associazioni dedite al sostegno alla maternità (i Centri di Aiuto alla Vita in primis, ma anche altre realtà come i servizi accoglienza alla vita diocesani, o alcuni movimenti come la Comunità Papa Giovanni XXIII, Comunione Mariana…) raccontano è che quando c’è una mamma in difficoltà, non c’è una contrapposizione tra la mamma ed il bambino, ma tra loro due e la società intorno a loro. Infatti normalmente una donna chiede di abortire perché c’è qualcuno o qualcosa che la spinge a farlo: il compagno che non ne vuole sapere o che comunque si tira indietro, la madre che non accetta la gravidanza della giovane figlia, il datore di lavoro che non rinnova il contratto quando viene a sapere della nuova maternità, la mancanza di un importante e continuativo sostegno economico dalle istituzioni, la mancanza di una rete familiare di supporto, la mancanza di condivisione dalle persone intorno e dalle istituzioni… Una delle frasi che sentono ripetere è: “Vorrei continuare la gravidanza, ma non posso!”.
Dunque anche la donna è vittima dell’aborto, una strada che lei ‘sceglie’ perché trova ostacoli e barriere in tutte la altre strade alternative.
Inoltre lo è doppiamente perché in tantissime donne dopo l’aborto rimane una profonda ferita, che può manifestarsi ‘semplicemente’ come rimpianto, sensazioni di vuoto e di malessere, incubi notturni, flash-back... ma che può evolvere in disturbi anche di tipo psichiatrico, come depressione, psicosi, o evolvere verso l’adozione di comportamenti autodistruttivi come l’abuso di sostanze… coseguenze peraltro di cui le non viene minimamente avvisata.
Oggi ormai sono numerosi gli studi a livello internazionale sulle sequele post-abortive che attestano l’esistenza di queste problematiche. In Italia su questo aspetto va segnalata in particolare la voce della rete “Ti racconto l’aborto” costituita da donne che hanno vissuto l’esperienza abortiva e che testimoniano come ne siano state dolorosamente segnate (www.tiraccontolaborto.org).
Per tutti questi motivi è importante, ogni volta che parliamo di gravidanze difficili e di aborti, avere attenzione ed empatia sia verso il bimbo sia verso la sua mamma. E quindi anche nel nostro comunicare dobbiamo essere attenti a parlare di entrambi, a far presente che entrambi ci stanno a cuore. A costo di essere pedanti, sarebbe bene in ogni nostro discorso citare entrambi.
3) Evitare qualunque atteggiamento giudicante e colpevolizzante verso le donne che vanno ad abortire
Questo punto è una logica e diretta conseguenza delle riflessioni esposte qui sopra.
Ma già il messaggio centrale della campagna “40 giorni per la vita” dice che questa preghiera è “un segno di speranza e di misericordia verso le donne” incinte in difficoltà, perché ad esse proponiamo un'accoglienza non giudicante, qualunque sia la loro situazione, un’alternativa all’aborto e un cammino di rinascita per coloro che hanno abortito.
Tuttavia il pregiudizio nella società verso i pro-life è molto forte, tanti ritengono che chi si occupa di evitare l’aborto abbia il dito puntato verso le donne, quindi è bene che nella comunicazione utilizziamo termini ed espressioni che mostrino il nostro interesse, la nostra vicinanza verso le donne, la condivisione delle loro difficoltà, che non vanno banalizzate, la disponibilità all’incontro in ogni momento, ed evitiamo di dare giudizi morali (che peraltro rischiano sempre di essere non corretti, proprio per i pesanti condizionamenti che la donna subisce e le informazioni distorte che riceve).
Alcuni slogan fuorvianti
Abbiamo visto le principali differenze tra la situazione socioculturale italiana e quella statunitense riguardo al tema dell’aborto.
Queste differenze comportano che anche le giustificazioni a sostegno della legittimità della pratica abortiva siano in parte diverse e ci siano nel nostro paese riflessioni e slogan molto diffusi e che fanno presa tra il grande pubblico che meritano di essere approfonditi e discussi criticamente per avere un quadro più completo di “cosa dire quando”.
A - “Occorre rispettare il principio di autodeterminazione: è giusto che sull’aborto decida la donna. Chi vuole mettere più restrizioni all’aborto vuole controllare il corpo delle donne, interferire nella loro vita privata, mantenerle in una situazione di subalternità”
La possibilità per le donne di prendere in mano la propria vita, prendendo scelte in autonomia, è una delle conquiste più importanti della nostra società, che va sostenuta e rafforzata a fronte di tentativi sempre nuovi di rimetterla in discussione.
Ma quando c’è da accogliere un bambino, le scelte della mamma non sono le uniche che contano, e parlare di autodeterminazione in questo contesto rischia di spostare solo sulla gestante una questione che non è unicamente sua.
Quando una donna scopre di essere incinta, sa che a partire da quel momento deve riprogettare il suo futuro: questo figlio ha bisogno di spazi, di tempo, di persone intorno, occorre trovare le risorse per mantenerlo. Tante sono le domande che si affollano nella sua mente, e le preoccupazioni: «Ho/abbiamo stipendi sufficienti per mantenerlo? Il papà sarà presente ed avrà cura di lui? Con chi starà il piccolo durante il giorno, mentre io lavoro?...» È il momento, in tutta la vita di un essere umano, in cui c’è più bisogno di poter contare sull’appoggio di altre persone.
Le gestanti incontrate dagli operatori pro-life hanno chiaro che crescere un figlio da sole è la cosa peggiore, che hanno bisogno di persone attorno per condividere le gioie e le fatiche di questa maternità: partner, ma anche genitori, amici, operatori sociali e sanitari, ambiente di lavoro... Se queste persone non ci sono, o si tirano indietro, tutti i problemi e i pesi che inevitabilmente accompagnano la crescita di un bimbo prima e dopo la nascita ricadono sulla mamma, lei da sola deve farsi carico di tutte le problematiche, e quindi tutto diventa più complicato e faticoso.
Accogliere un bambino non è una scelta individuale, attorno alla donna è fondamentale la presenza di altre persone, a partire ove possibile dal marito / compagno.
Ci sono invece uomini che dicono alle loro compagne: «Sei libera di scegliere, puoi esercitare la tua autodeterminazione!» ma non offrono loro nessun aiuto. Questi uomini sono ipocriti! Dovrebbero dire: «Se tu continui la gravidanza, io sarò al tuo fianco e farò il possibile per essere un buon padre!», e allora questo darebbe alle compagne il sostegno e la forza per affrontare le difficoltà legate alla gravidanza. Invece così le spingono pesantemente verso l’aborto!
Allo stesso modo la società è corresponsabile degli aborti se non dà alle gestanti i sostegni necessari. Invece l’argomento dell’autodeterminazione è usato per impedire che vengano attivati aiuti alle gestanti.
Quando un ente locale avvia nuove forme di tutela della maternità, come fondi destinati alle gestanti, o protocolli di collaborazione con associazioni pro-life, spesso insorgono persone che attaccano queste proposte in nome dell’autodeterminazione. Ma i fondi sono delle opportunità in più per le donne, lasciate alla libera scelta; gli operatori del terzo settore sono una risorsa in più che può fornire aiuti ed instaurare relazioni con le gestanti che un ente pubblico, per sua natura, non è in grado di dare. Perché non attivarli? O forse qualcuno vuole che la donna non abbia reali alternative?
Quante volte abbiamo assistito a levate di scudi da parte di persone, che per di più si proclamavano dalla parte delle donne, che sostenevano che questa proposte erano un’ingerenza nella libertà di scelta delle gestanti?
Ma si è mai visto un sindacato protestare perché, in una situazione di crisi aziendale, viene attivata la cassa integrazione per i lavoratori, dicendo che questo strumento limita la libertà di scelta dei dipendenti di andare a cercare un’occupazione da un’altra parte? Invece qui avviene proprio questo.
In conclusione, le gestanti in difficoltà hanno bisogno di un aiuto, di una mano tesa, non di proclami all’autodeterminazione.
Dov’è la libertà di una donna che dice all’operatore «Sono decisa ad abortire!» quando lo fa perché il suo compagno la ricatta minacciandola di riempirla di botte o di cacciarla fuori di casa? Le donne oggi sono oppresse da una società che con la scusa dell’aborto non si fa carico di sostenere le maternità difficili: «Tanto c’è l’aborto, perché vieni a romperci coi tuoi problemi?»
L’impegno per l’autodeterminazione quindi significa lottare per la liberazione delle donne da tutti questi condizionamenti, perché sia garantito in ogni situazione il diritto della donna ad essere madre.
È poi lo stesso termine “autodeterminazione” a non essere il più appropriato in questo contesto, dato che fa riferimento a scelte che hanno impatto primariamente su se stessi; qui invece la gestante non decide solo della sua vita ma innanzitutto di quella di un altro/a. Visto dalla parte del feto, questa è una “eterodeterminazione”, una decisione di altri che impatta pesantemente sulla sua vita.
B - “Sul mio corpo decido io!”
E’ una variante degli slogan già visti al punto precedente, una frase che già veniva usata dalle femministe pro-choice negli anni ‘70 ed oggi è rilanciata con insistenza dagli stessi movimenti, assieme ai centri sociali e ad alcune forze politiche, diventando uno dei refrain costantemente presente nelle loro manifestazioni.
Abbiamo visto al punto precedente quanto in realtà la decisione di abortire sia pesantemente condizionata dal contesto in cui la donna si trova a vivere, e pertanto un’affermazione così perentoria ed assoluta sia irreale.
Qui possiamo aggiungere che non si può che essere d’accordo sul fatto che la donna prenda decisioni in autonomia riguardo la cura del suo corpo, la sua salute, ecc. Ma la donna non è padrona della figlia o del figlio che porta nel grembo, sono soggetti autonomi e la donna non può ragionare riguardo al bambino come se si trattasse di una parte del suo corpo.
C - “L’aborto è un diritto civile, una conquista delle donne”
Gianna Jessen, una donna californiana che 47 anni fa è stata abortita ma poi è sopravvissuta, raccontando oggi quell’evento lo commenta così: «Io, donna, in quel giorno venivo uccisa in nome dei diritti delle donne!» E aggiunge: «Se l’aborto riguarda i diritti delle donne, dove erano i miei?»
Se esercitare un diritto comporta togliere la vita ad un nostro simile, non dobbiamo iniziare a domandarci se c’è qualcosa che non va?
Anche quando ci sono più diritti in gioco, non sono tutti sullo stesso piano. Nelle maternità difficili ci sono tanti soggetti in gioco, ognuno titolare di diritti, ma uno solo rischia in modo diretto ed immediato la sua vita (tranne quando c’è un rischio diretto, reale e imminente per la vita della madre, eventualità che si presenta in casi rarissimi).
Oggi invece si parla tanto dei diritti delle donne ma non si riconosce di fatto al bambino nel grembo, nostro simile, alcun diritto. Non dovrebbe invece uno stato laico innanzitutto promuovere i diritti di questi cittadini, oggi così negati, e fare leggi a questo scopo?
E anche per la gestante, davvero il “diritto all’aborto” è la sua esigenza principale? Oggi quello che viene sistematicamente violato è il diritto a continuare la gravidanza, ad avere certezze per poter accogliere il nuovo arrivato con serenità. Chi chiede che alle gestanti in difficoltà sia garantito un aborto somiglia molto ad un sindacato che in un’azienda in crisi chiede che sia garantito ai lavoratori il diritto di dimettersi senza ostacoli…
Ed inoltre, il “diritto all’aborto” da quale fonte trae origine? Non se ne trova traccia nelle principali dichiarazioni internazionali sui diritti: non nella Dichiarazione dei diritti umani; non nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo (che è la dichiarazione dei diritti umani applicata ai bambini); anzi quest’ultima pone piuttosto l’accento sulla necessità di proteggere il bambino non nato. Non è presente nelle diverse Convenzioni internazionali. Neanche la nostra Costituzione ne fa alcun cenno diretto.
Infine, l’aborto è un dramma per una donna, un’esperienza dolorosa, violenta, traumatica e che lascia ferite aperte per lunghissimo tempo: è davvero possibile pensare che l’esercizio di un diritto abbia queste caratteristiche?
D - “La donna abortirebbe comunque, quindi meglio che questo avvenga in modo legale, in strutture sanitarie adeguate. L’aborto clandestino comporta gravi rischi per la salute fisica delle donne”
Probabilmente è capitato a diverse persone di sentire racconti di medici che, soprattutto negli anni ‘60 e ‘70, hanno curato donne che avevano subito emorragie o infezioni a seguito di un aborto clandestino, rischiando di morire. La pratica dell’aborto clandestino comporta senza dubbio rischi per la salute delle mamme, legati al fatto che esso viene praticato in situazioni precarie ed in scarse condizioni igieniche.
Questo fatto va tenuto in conto e non va banalizzato. Come pro-life abbiamo a cuore anche la salute e la vita delle gestanti, quindi siamo rattristati e dispiaciuti dalle ferite che vivono queste donne, come siamo rattristati dei bambini morti anche per aborto clandestino.
Questo non ci impedisce di dire che la frase sopra riportata è discutibile, per diversi motivi.
Da un lato l’affermazione sottintende che non esista nessun’altra alternativa oltre alle due riportate. È come affermare che è preferibile che sia lo Stato ad uccidere chi ha commesso un reato piuttosto che la giustizia “fai da te”. No, manca una terza alternativa: l’opzione di non uccidere un nostro simile e di fargli scontare in altro modo la sua pena.
L’antitesi tra aborto illegale e legale è falsa; c’è una terza via per la società, ed è quella più civile: rendere possibile ad una gestante l’accoglienza del proprio figlio/a. La testimonianza dei tanti operatori che incontrano gestanti in difficoltà ci dice quanto volte sia sufficiente la condivisione, l’ascolto, l’incoraggiamento, la vicinanza perché la mamma si apra alla speranza e trovi la forza di affrontare gli ostacoli che si trova attorno a sé.
Rimanere bloccati nella contrapposizione aborto di Stato / aborto clandestino significa essere senza speranza, pensare che la soppressione del bimbo sia la strada obbligata, che la decisione della gestante sia senza possibilità di ripensamento. Cosa che alla prova dell’esperienza non si rivela vera. E fornire uno straordinario alibi alla società per non cercare alternative migliori per le gestanti.
D’altra parte l’affermazione sopra riportata è parziale perché non dice nulla dei rischi più gravi legati ad un aborto, che sono le conseguenze negative a livello psicologico e psichiatrico, come emerge da diverse ricerche a livello internazionale sulle sequele postabortive, e tra queste vi sono i suicidi e i tentativi di suicidio. E queste non cambiano per il fatto che l’aborto sia legale o clandestino.
Lo studio Coleman, il più ampio studio effettuato sulle conseguenze dell’aborto sulla salute mentale delle donne (una meta-analisi di più di 50 studi sull’argomento, per un totale di 877.181 donne coinvolte), stima un incremento del 37% dei casi di depressione, del 110% dei casi di abuso di alcol, del 220% dei casi di uso o abuso di marijuana, del 155% di tendenze suicidarie nelle donne che hanno abortito. Se a questo si aggiunge l’aumento di altre gravi conseguenze, dalle psicosi alle ansie, emerge che le problematiche legate alla salute delle donne che abortiscono è davvero molto ampio. Chi ha a cuore la salute ed i diritti delle donne non può quindi limitarsi solo a parlare dei rischi per la salute fisica.
Infine la frase nega un effetto della legalizzazione sul numero degli aborti. Ma questo, oltre ad essere contrario al buon senso (porre dei vincoli, dei limiti a qualunque pratica ne causa la riduzione), non corrisponde alla testimonianza di diverse donne che dicono che se l’aborto non fosse stato legale loro non avrebbero mai abortito. E del resto nella società del ‘pensiero debole’, la legge è una guida molto forte ai comportamenti umani. In questo caso il messaggio è implicito ma molto chiaro: “Se la legge lo consente, vuol dire che non è una cosa cattiva!”, e quindi in una situazione di difficoltà l’aborto diventa un’opzione tra le altre.
E - “Io non abortirò mai, ma non posso impedire ad altre persone di farlo”
È una frase tipica del pensiero individualista contemporaneo: «Io posso essere contrario all’aborto, perché va contro i miei principi e i miei valori; ma se un’altra persona ha valori e principi diversi, perché debbo impedirle di fare una cosa che lei non ritiene sbagliata?»
Questo ragionamento nasce da valori importanti, come la tolleranza, l’apertura mentale, il rispetto delle persone, delle loro tradizioni, delle loro scelte, delle loro idee. Se uno fa scelte diverse dalle mie sull’alimentazione, sull’abbigliamento, sul modo di impiegare il tempo, sulle persone da frequentare... perché debbo giudicarlo?
Ma tutto questo è condivisibile finché non si vanno a toccare i diritti umani fondamentali. Ci sono infatti diritti, riconosciuti dalla comunità umana, che vanno sempre rispettati, anche a costo di mettere in discussione tradizioni e convinzioni radicate.
In altri campi del vivere sociale questa è una consapevolezza più chiara e diffusa.
Ad esempio in diverse parti del mondo ci sono culture, dottrine, credenze, che affermano un uomo ha più diritti di una donna, e arrivano a stabilire che la violenza del marito verso la moglie è legittima; in alcuni paesi questa disuguaglianza è sancita anche da leggi. Ma tutto questo è contrario ai diritti umani fondamentali, al fatto quindi che uomini e donne hanno la stessa dignità e uguali diritti, come attesta la Dichiarazione universale dei diritti umani (artt. 1 e 2).
Ora se io ho dei vicini di casa e sono testimone del fatto che il marito picchia la moglie, posso forse dire: «Io non picchierò mai mia moglie, ma non posso impedire al mio vicino di farlo!»? No, non posso lasciar correre, perché questo comportamento viola i diritti della donna; debbo fare quanto è in mio potere per far cessare quella violenza, ed inoltre chiedere più leggi a tutela delle donne che le subiscono.
Potrebbe capitare che la donna stessa, per l’influsso dell’ambiente culturale in cui è cresciuta, giustifichi il comportamento del partner e lo condivida. Ma neppure questo è un elemento sufficiente per rimanere con le mani in mano: la violazione del diritto resta, anche quando chi la subisce è consenziente.
Il punto è proprio questo: il rispetto dei diritti umani viene prima del rispetto delle scelte etiche individuali.
Così è anche per l’aborto. Anche qui vengono violati diritti fondamentali, senz’altro numerosi diritti del bambino: alla vita, all’autodeterminazione, alla privacy. Ha più a cuore gli altri chi non interviene o chi chiede la tutela di questi diritti? E di fronte ad una donna che non ha persone intorno che la sostengano, è in difficoltà con la gravidanza, e subisce inviti più o meno espliciti all’aborto, chi sostiene i diritti delle donne deve rimanere indifferente, o piuttosto deve darsi da fare perché rendere concretamente possibile l’accoglienza?
F - “È la donna che decide se è un bambino”
Cioè: se la donna decide di continuare la gravidanza, è un bambino, se abortisce non lo è.
Ma in nessuna fase della vita umana è la volontà di un altro a decidere se io sono vivo o no, se sono umano o meno. Per decidere sulla natura dell’embrione umano bisogna interpellare la scienza, guardare ai dati, agli elementi concreti. Il cuore del bambino batte già dalla terza settimana, indipendentemente dalla volontà e dai desideri di chiunque. È lo stesso cuore che continuerà a battere per decenni, che oggi batte in me e in voi. Un’ecografia di un embrione al terzo mese mostra un piccolo uomo (o una piccola donna), pienamente riconoscibile, con gli organi già formati.
Due embrioni umani simili, alla stessa settimana di gestazione, possono uno essere accolto e l’altro abortito: come è possibile che uno sia un bambino e l’altro no? Non è una palese discriminazione?
G - “In uno stato laico non è giusto che una Chiesa imponga ad altri il proprio punto di vista”
Questa è un’affermazione assolutamente condivisibile! Il problema è che è usata ogni volta che si parla di aborto per respingere a priori qualunque riflessione sul tema che venga da uomini di Chiesa, come se non avessero diritto di parola al di fuori delle mura delle sagrestie.
Ma questo è un atteggiamento discriminatorio: i cattolici, siano essi vescovi, presbiteri o laici, sono cittadini italiani a pieno titolo e dunque hanno diritto di esprimere la loro opinione.
Un cattolico che porta nella società in cui vive il punto di vista della Chiesa sull’aborto (come su altri temi) non lo fa perché è cattolico ma perché ritiene che questo sia il punto di vista migliore per tutti, credenti e non credenti. Se propone leggi ed azioni coerenti col Magistero della Chiesa non lo fa perché è dogmatico, ma perché ha riflettuto su un data questione e ritiene che quelle proposte siano le più giuste e più utili per la società in cui vive, per questo volentieri le propone a tutti.
Quindi tra tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro fede, i problemi vanno risolti attraverso l’ascolto, il dialogo, l’approfondimento, l’incontro con i soggetti più deboli, senza preclusioni e pregiudizi nei confronti di nessuno e di nessuna idea.
Inoltre un cattolico (ma questo vale anche per tutti gli altri cristiani), come seguace di Gesù che si è fatto povero ed ultimo, tende ‘istintivamente’ a non promuovere i propri interessi ma chiede più attenzione verso gli emarginati e le emarginate, aiutando tutta la società a prendere consapevolezza della loro esistenza e dei loro diritti.
H – “Il ‘problema aborto’ è una questione di fede”
E’ l’oggetto di una questione che determina se quella questione è religiosa o no. Questioni come la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici o l’insegnamento della religione nelle scuole hanno senza dubbio una dimensione religiosa.
Viceversa l’aborto in sé non è un tema di fede, è un tema laico. E’ una questione sociale, di tutela dei diritti umani, di rispetto dei più deboli della società. Il fatto che come credenti denunciamo più di altri questa grande ingiustizia, non ne fa una questione religiosa.
Tantissimi credenti si sono opposti in vario modo alle guerre recentemente esplose in Ucraina e tra israeliani e palestinesi, ma questo non ha fatto diventare il confronto su queste guerre una questione confessionale.